Il surf, da sempre celebrato come “sport dei re”, ha spesso escluso o relegato ai margini le sue protagoniste femminili. Eppure, dalle antiche regine della Polinesia alle campionesse di oggi, le surfiste hanno intrapreso un cammino fatto di discriminazioni, conquiste e rivoluzioni. Un percorso lento e faticoso, che ha visto riconoscimenti tardivi ma fondamentali: nel 2018, con la decisione della World Surf League, si è finalmente raggiunta la parità salariale tra uomini e donne.
Le radici polinesiane del surf
La tradizione surfistica ha origini nobili. Nelle isole della Polinesia non erano solo i capi a sfidare le onde, ma anche le regine. Una delle prove più affascinanti arriva da una tavola di 400 anni fa appartenuta alla principessa Kaneamuna. Ancor prima, nel XV secolo, la principessa Kelea era ricordata come “la regina del surf di Maui”. Una storia che smentisce l’idea di un surf esclusivamente maschile.
Le prime pioniere del Novecento
Il XX secolo segnò il ritorno delle donne sulle onde in un contesto ormai dominato dagli uomini. Nel 1915, l’australiana Isabel Letham si fece notare surfando accanto al leggendario Duke Kahanamoku. Pochi decenni più tardi, surfiste come Ethel Kukea e May Ann Hawkins contribuirono a dare visibilità a una generazione che stava crescendo nell’ombra. Nel 1959 Linda Berton entrò nella storia cavalcando onde di sei metri a Waimea, affrontando non solo la forza dell’oceano ma anche i pregiudizi di un’epoca che non lasciava spazio alle donne nello sport.
L’ingresso nelle competizioni
La svolta avvenne negli anni ’60, quando il surf divenne popolare anche tra il pubblico femminile. Nel 1964 Patti McGee vinse il primo Campionato femminile statunitense. La sua vittoria portò alla nascita di associazioni come la Women’s International Surfing Association e l’International Professional Surfers Tour, che contribuirono a dare struttura e visibilità al surf femminile. Negli anni ’70 emersero icone come Margo Oberg, Lynne Boyer e Rell Sunn, simboli di un’epoca in cui il surf diventava anche atto politico e di resistenza contro stereotipi e discriminazioni.
Pauline Menczer e il prezzo del sessismo
Negli anni ’90 il surf femminile aveva già figure di grande talento, ma la disparità di trattamento rimaneva evidente. Pauline Menczer, campionessa mondiale nel 1993, ne è l’emblema. Cresciuta tra difficoltà economiche e colpita da una malattia autoimmune, vinse il titolo mondiale senza sponsor e senza il sostegno del sistema. In quell’occasione ricevette solo un trofeo danneggiato, mentre al campione maschile andarono 25.000 dollari. Nel suo libro Surf Like a Woman definì quell’ambiente “tossico”, raccontando un mondo in cui l’immagine contava più del talento.
La conquista della parità salariale
Fondata nel 1976, la World Surf League aprì presto alle competizioni femminili, ma solo nel 2018 arrivò la decisione storica: parità dei premi tra uomini e donne. Dal 2019 i riconoscimenti economici hanno lo stesso valore per tutti. Un risultato ottenuto grazie all’impegno costante delle surfiste che, per decenni, hanno lottato per la dignità e l’uguaglianza nello sport.
Verso un futuro inclusivo
Il cammino delle surfiste non è concluso, ma oggi i segnali sono incoraggianti. Sempre più donne frequentano i surf camp e figure come Justine Dupont, madre e campionessa capace di vincere sulle gigantesche onde di Nazaré, dimostrano che maternità e sport di vertice possono convivere. La storia del surf femminile non è più solo racconto di resistenza: è una narrazione di forza, inclusione e speranza, capace di abbattere barriere culturali e ispirare nuove generazioni.
19 Settembre 2025
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