C’era un’Italia che imparava a guardarsi allo specchio grazie a una vignetta, spesso crudele ma sempre lucida, capace di svelare le contraddizioni del potere e dell’animo umano. Quell’Italia l’ha disegnata per cinquant’anni Giorgio Forattini, il più celebre vignettista politico del dopoguerra, scomparso a Milano all’età di 94 anni. Nato a Roma il 14 marzo 1931, aveva iniziato quasi per caso, nel 1974, dopo la vittoria del referendum sul divorzio. “Disegnai Fanfani come un tappo che saltava via da una bottiglia con un grande NO sull’etichetta”, raccontava con orgoglio. Era l’inizio di una carriera che avrebbe trasformato la satira in un linguaggio nazionale.
Una vita tra matite e potere
In oltre mezzo secolo di lavoro, Forattini ha costruito un mosaico di oltre 14mila vignette, diventando una voce critica e irriverente della vita pubblica italiana. Le sue caricature hanno attraversato stagioni difficili e cruciali: il terrorismo politico, le stragi di mafia, Mani Pulite. Nessun potente è sfuggito alla sua matita: Andreotti il multiforme, Craxi come un Duce moderno, D’Alema in uniforme da Hitler comunista, Berlinguer in vestaglia, Veltroni bruco, Bossi cavaliere leghista, Prodi curato di campagna. Tutti trasformati in simboli, protagonisti di una grande commedia italiana in bianco e nero.
La satira come libertà e come rischio
Per lui la satira era un esercizio di libertà e divertimento. “Il principio della libertà e del divertimento” diceva spesso, consapevole di aver fatto arrabbiare molti. Non pochi finirono per querelarlo. Tra questi, Massimo D’Alema, allora Presidente del Consiglio, che gli chiese tre miliardi di lire per una vignetta sull’affare Mitrokin. Una richiesta senza precedenti, che per Forattini rappresentò “un pericoloso precedente contro la libertà di satira”. Quell’episodio segnò la rottura con La Repubblica — giornale che amava ricordare con ironia: “Eugenio Scalfari l’ha fondata, io l’ho disegnata” — e il passaggio a La Stampa, dove l’Avvocato Agnelli lo accolse con un contratto d’oro.
Una matita che sapeva anche commuovere
Dietro la ferocia delle sue vignette, Forattini nascondeva una sensibilità profonda. Come nella celebre immagine della Sicilia a forma di coccodrillo in lacrime, disegnata dopo la morte di Giovanni Falcone. O nella vignetta dedicata a Leon Klinghoffer, il turista americano disabile ucciso e gettato in mare durante il sequestro dell’Achille Lauro. “Sono molto affezionato alle vignette su Spadolini, nudo, innocente come un putto”, diceva con una punta di nostalgia. La sua satira, spesso implacabile, sapeva diventare poesia.
Un uomo libero, lontano da ogni partito
Nonostante la sua carriera fosse intrecciata con giornali e poteri, Forattini si è sempre definito liberal e indipendente. “Non sono mai stato di sinistra. E neanche di destra. Detesto l’integralismo, non sopporto nessun partito”. La sua libertà gli costò spesso critiche e allontanamenti. Lavorò per Panorama, Paese Sera, La Repubblica, L’Espresso, Il Giornale, fino ai quotidiani del Gruppo Riffeser. Ogni cambio di testata era una dichiarazione d’indipendenza, la prova che la satira non può appartenere a nessuno.
L’eredità di un osservatore implacabile
La forza di Forattini stava nella sua capacità di raccontare l’Italia non con le parole ma con l’ironia visiva. “Si potrebbe spiegare con una frase di Andreotti: ‘Che posso dire di Forattini? È lui che mi ha inventato’”. Era il suo modo di dire che la satira non descrive, crea: modella personaggi, costruisce immaginari, fissa nella memoria collettiva un’epoca. Le sue vignette, raccolte in oltre sessanta libri e vendute in milioni di copie, restano una testimonianza viva del potere dell’ironia come strumento di verità.
04 Novembre 2025
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