Alberto Trentini, operatore umanitario detenuto a Caracas da un anno, è diventato suo malgrado il simbolo di una vicenda che intreccia diplomazia, diritti umani e la fragilità delle famiglie che attendono notizie. A Milano, durante una conferenza stampa, la madre Armanda Trentini e l’avvocata Alessandra Ballerini hanno condiviso un racconto composto di silenzi, attese e richieste precise rivolte al governo italiano. Il loro messaggio, pur duro, si mantiene lucido e accessibile, ricordando che dietro un caso internazionale c’è sempre una persona, una storia, una famiglia.
Una madre contro il silenzio
Il primo elemento emerso con forza è il peso del silenzio. Armanda Trentini, con una compostezza che non nasconde l’urgenza, ha ricordato che “fino ad agosto il governo italiano non aveva ancora avuto nessun contatto telefonico con il governo venezuelano”. Una frase che ha il valore di una denuncia, ma anche di un appello alla responsabilità istituzionale. Per la famiglia, questo stallo rappresenta la misura di quanto poco sia stato fatto nei primi mesi per tutelare il proprio figlio.
Un silenzio che, come racconta la madre, era stato inizialmente accettato per non compromettere la posizione di Alberto: “ci è stato imposto il silenzio per non danneggiare la posizione di nostro figlio”. Ma quando le settimane diventano mesi, e i mesi diventano un anno, quel silenzio si trasforma in una ferita che non si può più ignorare.
Le attese, le telefonate, gli incontri
Armanda Trentini ha ripercorso anche i contatti avuti con il governo italiano: tre telefonate della presidente Giorgia Meloni, due incontri con il sottosegretario Alfredo Mantovano e un dialogo costante della legale con l’inviato speciale Placido Vignali. Un quadro che dimostra impegno, ma che per la famiglia rimane insufficiente.
La madre di Alberto lo ha detto con estrema chiarezza, senza retorica: “per Alberto non si è fatto quello che era necessario e doveroso fare per la sua liberazione”. Poi, con una sincerità che colpisce, ha aggiunto: “sono stata troppo paziente ed educata ma ora la mia pazienza è finita”.
Il richiamo alla responsabilità
La richiesta è tanto semplice quanto potente: “il governo lo tratti come fosse figlio loro”. Una frase che racchiude il senso di ingiustizia e sofferenza accumulato in dodici mesi. Ogni giorno aggiunto alla detenzione porta con sé nuove paure, nuove incertezze, e – come ha sottolineato la legale della famiglia – nuovi traumi.
La vicenda mette in evidenza un aspetto spesso sottovalutato: per le famiglie, l’attesa non è un intervallo di tempo neutro. È una dimensione complessa fatta di telefonate che non arrivano, aggiornamenti minimi, speranze che oscillano.
La voce della difesa, tra diplomazia e pace
L’avvocata Alessandra Ballerini, da anni impegnata in casi di diritti umani, ha offerto una lettura più ampia della vicenda, chiedendo che il governo utilizzi con decisione il canale diplomatico finalmente aperto con il Venezuela. Non solo una richiesta tecnica, ma un invito a riconoscere la delicatezza del momento.
In conferenza stampa ha sottolineato: “chiediamo che il governo faccia tutto il possibile e utilizzi il canale che si è aperto con il Venezuela”, aggiungendo che l’Italia deve rassicurare Caracas sul fatto che non intenderebbe sostenere alcuna pressione militare esterna. Il riferimento è chiaro e punta a disinnescare eventuali timori: “l’Italia ripudia la guerra e non saremo favorevoli a un’invasione Usa”.
Un gesto di distensione possibile
Infine, la legale ha rivolto un messaggio diretto al presidente Nicolás Maduro, auspicando un gesto politico che possa aprire una nuova fase: “Maduro faccia un gesto di distensione, lui e i suoi ministri rispettino le promesse e permettano ad Alberto di tornare a casa”.
Una richiesta che unisce diplomazia e umanità, ma che contiene anche un richiamo a un valore più alto: la pace. La liberazione di Alberto sarebbe, nelle parole della difesa, “il miglior modo di invocare la pace”.
16 Novembre 2025
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