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La generazione invisibile, l’autismo che cresce e diventa adulto

L’autismo non finisce con l’infanzia, cresce con la persona e chiede una società capace di accogliere anche l’età adulta

La generazione invisibile, l’autismo che cresce e diventa adulto

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Dopo i bambini, gli adulti invisibili: la nuova sfida dell’autismo è accompagnare le persone lungo tutto il ciclo della vita

Ci sono bambini che imparano a convivere con la loro diversità fin dai primi anni di vita, circondati da terapie, insegnanti di sostegno e genitori che cercano risposte. Poi, un giorno, quei bambini diventano adulti. E all’improvviso, il mondo che li aveva accompagnati scompare. È in quel momento che nasce la crisi silenziosa dell’autismo adulto, una realtà rimasta troppo a lungo fuori dallo sguardo pubblico.

Per decenni, la scienza ha guardato all’autismo come a una condizione infantile, quasi si dissolvesse con l’età. Ma non è così. Cresce con la persona, cambia forma, si adatta, spesso si nasconde. A ricordarcelo è una recente analisi pubblicata su Frontiers in Public Health basata sui dati del Global Burden of Disease: tra il 1990 e il 2021, le persone tra i 15 e i 39 anni nello spettro autistico sono aumentate da 17,5 a oltre 24 milioni nel mondo. Numeri che raccontano un fenomeno in crescita e un sistema impreparato ad accoglierlo.

La normalità come sforzo quotidiano

“L’autismo non scompare, evolve”, spiega Liliana Dell’Osso, presidente della Società Italiana di Psichiatria (SIP). È una condizione che accompagna la persona per tutta la vita, ma che spesso resta invisibile, soprattutto nelle donne. Emi Bondi, già presidente SIP e direttrice del DSM dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo, racconta come molte imparino fin da piccole a mascherare le difficoltà relazionali e comunicative: una strategia di sopravvivenza chiamata “camouflaging”. Ma dietro quel mimetismo c’è fatica, isolamento, fragilità.

Il secondo picco, la solitudine dell’età adulta

I dati del GBD mostrano che tra i 30 e i 39 anni si registra il maggiore incremento di disabilità legata all’autismo: +56% in trent’anni. Un passaggio critico che Antonio Vita, vicepresidente SIP e docente all’Università di Brescia, definisce “il secondo picco”: il momento in cui finiscono i supporti scolastici e inizia la corsa verso il lavoro, l’autonomia e le relazioni adulte. È qui che molte persone nello spettro restano senza punti di riferimento, travolte da un sistema che non prevede continuità di sostegno.

Italia, un paese ancora a metà del guado

Nel nostro Paese, le persone nello spettro autistico rappresentano circa l’1% della popolazione, ma non esistono dati precisi sugli adulti. “Abbiamo 1.214 centri di diagnosi e presa in carico, ma solo 648 offrono servizi anche per l’età adulta”, spiega Vita. Significa che, per la metà di loro, la cura finisce con la maggiore età. La transizione è brusca: da un sistema di protezione strutturato si passa al vuoto, e chi resta indietro è costretto a reinventarsi, spesso con esiti dolorosi.

Ripensare la cura come percorso continuo

“È urgente adottare una prospettiva che accompagni l’autismo lungo tutto il ciclo di vita”, afferma Giulio Corrivetti, vicepresidente SIP e direttore dell’Unità Operativa di Salute Mentale della ASL Salerno. Non basta diagnosticare presto: serve mantenere il filo dell’assistenza, formare professionisti in grado di riconoscere il DSA negli adulti, ampliare i servizi territoriali e offrire percorsi di inserimento lavorativo. Perché la salute mentale non è solo una questione clinica, ma anche di opportunità, dignità e inclusione.

Rendere visibile ciò che resta invisibile

La vera sfida non è solo medica, ma culturale. Riguarda lo sguardo con cui la società osserva la diversità. L’adulto autistico non è un “caso clinico”, ma una persona con desideri, talenti, aspirazioni e limiti. Investire sulla sua autonomia significa migliorare la qualità di vita di un’intera comunità. E ricordare che dietro ogni diagnosi c’è una storia, spesso silenziosa, che chiede solo di essere ascoltata.


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07 Novembre 2025
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