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Lavorare di più per andare in pensione, un paradosso che pesa sui redditi più bassi

L’aumento dei requisiti pensionistici colpisce soprattutto chi ha redditi bassi e contratti part time, ampliando le disuguaglianze

Lavorare di più per andare in pensione, un paradosso che pesa sui redditi più bassi

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La crescita del minimale contributivo riduce le settimane utili e obbliga milioni di lavoratori a restare in servizio più a lungo

Un dibattito che ritorna periodicamente, ma che oggi assume contorni ancora più netti: il progressivo aumento dell’età pensionabile non incide allo stesso modo per tutti. A farne le spese, come spesso accade, sono coloro che già vivono una condizione lavorativa fragile. Mentre gli adeguamenti legati all’aspettativa di vita prevedono dal 2028 un incremento di tre mesi, per una parte consistente di lavoratori il traguardo potrebbe spostarsi molto oltre.

Quando tre mesi diventano cinque

Il nodo sta nel minimale contributivo, una soglia che nel 2025 raggiungerà 12.551 euro. Chi non riesce a superarlo – tipicamente chi lavora con part time, contratti brevi o retribuzioni basse – dovrà macinare più settimane per coprire lo “scatto” previsto. Dal 2028, infatti, i mesi di lavoro aggiuntivi potrebbero diventare anche cinque. Un meccanismo che rischia di accentuare disuguaglianze già profonde.

L’impatto su giovani e donne

Una ricerca della Cgil mette nero su bianco l’entità del problema, sottolineando come l’aumento automatico dei requisiti legati all’aspettativa di vita colpisca soprattutto giovani e donne. L’impennata dell’inflazione ha ulteriormente complicato la situazione: stipendi che crescono poco si scontrano con un minimale contributivo che corre molto più veloce. Il risultato? Meno settimane riconosciute e un futuro più incerto.

Il dibattito politico e i tentativi di correzione

Sul tema è intervenuto anche il sottosegretario al Lavoro Claudio Durigon, spiegando che l’obiettivo del Governo è “sterilizzare l’aumento” previsto dal 2027. Un impegno che, qualora non si riuscisse a mantenere nell’immediato, dovrebbe essere ripreso l’anno successivo. Ma nel frattempo le simulazioni mostrano scenari tutt’altro che rassicuranti per una larga fetta di lavoratori: circa 5,1 milioni di persone nel settore privato potrebbero essere coinvolte.

Le simulazioni della Cgil

Secondo Ezio Cigna, responsabile delle politiche previdenziali della Cgil, chi percepisce redditi molto bassi dovrà “rincorrere” i mesi aggiuntivi per anni. Con una retribuzione di 5.000 euro l’anno, per esempio, i tre mesi del 2028 significheranno quasi due mesi di lavoro in più. E guardando avanti, il quadro diventa ancora più complesso: “Nel 2050 servirà lavorare oltre un anno in più solo per colmare gli incrementi dei requisiti”.

Quando il minimale corre più degli stipendi

Il vero cortocircuito nasce dall’andamento del minimale contributivo. Tra il 2022 e il 2025 l’aumento è pari al 14,9%, destinato a salire al 16,5% nel 2026. Nello stesso periodo, i salari sono rimasti molto più fermi. Questo significa che anche lavorando tutto l’anno si possono perdere settimane di contribuzione utile. Secondo la Cgil, un lavoratore con retribuzione invariata potrebbe vedersi “cancellate” fino a 22 settimane tra il 2023 e il 2026.

Chi rischia di più

A essere maggiormente penalizzati sono i lavoratori che svolgono attività con orari ridotti, spesso legati ai servizi essenziali: mense scolastiche, assistenza, pulizie, attività stagionali. Per loro ogni settimana persa pesa il doppio, perché all’età pensionabile si aggiunge il lento e continuo arretramento del potere d’acquisto. Una combinazione che trasforma un semplice adeguamento tecnico in un ostacolo concreto alla vita futura.


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10 Dicembre 2025
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